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duomoPio Tarantini, uomo semplice, ma acuto osservatore e d’intelligenza non comune, ci regala una sua visione della “Milano da fotografare”.

Pio è un fotografo professionista creativo, umile come le sue radici, ma di grandi capacità, insegna anche fotografia allo IED e, nel suo ruolo di saggista, ci ha donato l’ultimo suo lavoro: “FOTOGRAFIA ARABA FENICE NOTE SPARSE TRA FOTOGRAFIA, CULTURA E IL MESTIERE DEL VIVERE” Quinlan Editore, 2014
Qui il suo sito

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Dal blog “Fotocrazia” di Michele Smargiassi su Repubblica.it

Intervento di Pio Tarantini sull’articolo “Milano che fatica” del 13 maggio 2015

Milano è una malattia, di quelle inguaribili, e non resisto alla tentazione di intervenire su questo argomento, soprattutto dopo aver letto gli interventi degli amici Giovanna Calvenzi e Cesare Colombo, con cui sono sostanzialmente d’accordo, in particolare in merito alla componente dialettica che sollevano sulle ombre e luci di questa città che si ama e si odia come il borgo leopardiano nella versione contemporanea di Leviatano urbanistico.
Mi permetto di aggiungere qualche nota per diversi motivi: biografici innanzitutto, perché anche io sono un immigrato in questa città ed essendoci arrivato da un piccolo paese del Sud-Est d’Italia ho vissuto in prima persona lo sradicamento/radicamento, per cui Milano da molti decenni è diventata la “mia città”; questa osservazione personale, in questa sede, ha senso perché assume ovviamente un valore politico-sociale, perché è una testimonianza della ondata di emigrazione interna al nostro Paese degli anni settanta, anche se per il sottoscritto e tanti altri si trattò di un’emigrazione privilegiata, di chi vedeva nel capoluogo lombardo la versione italiana della metropoli americana, la terra su cui si poteva costruire un progetto di vita. E così è stato: io, come tanti altri, non potrei più vivere lontano da questa città: pur senza il mare, non lontano dalle cui rive sono nato e cresciuto, senza un fiume, senza colline o montagne – che quando appaiono all’orizzonte nelle giornate terse ci fanno gridare al miracolo. Se il mio imprinting sensoriale mi fa commuovere davanti alla bellezza di altre città italiane – da Roma a Napoli, solo per citare le più grandi – la mia razionalità mi rende milanese-dipendente: è vero, come è stato scritto in altri interventi di questo blog, che la bellezza discreta di Milano, le opportunità che offre, l’efficienza dei servizi e tanti altri aspetti positivi sono conquiste alle quali non si riesce più a rinunciare. Da questo punto di vista, è doloroso dirlo, Milano esce vincente più che per i suoi meriti per i ritardi – è un eufemismo – delle altre grandi città italiane.

Da un punto di vista fotografico Milano è diventata probabilmente la città più fotografata, da un punto di vista della ricerca d’autore, d’Italia, perché è una città che cambia rapidamente: dalla città-fabbrica cristallizzata per sempre da Paolo Monti, Gabriele Basilico e tanti altri alla città dei servizi, del terziario avanzato, testimoniato da numerosissimi reportage attuali, con approcci e modalità stilistiche più diverse.
Non ho avuto ancora modo di andare a vedere la mostra in questione, lo farò prima della sua chiusura, ma dalle immagini postate in questo blog sembrerebbe un approccio un po’ nostalgico – e su questo niente di male: la nostalgia, lo sguardo al passato, a ciò che “è stato”, è consustanziale al linguaggio fotografico – ma io sono tra coloro che, senza abbandonare una lettura critica del territorio e delle manifestazioni sociali che ne scaturiscono, cerco anche di vederne i lati positivi.

Per fare un esempio legato alla immagine scelta da Michele in apertura, il cantiere davanti a San Siro, io non lo vedo come un paesaggio desolato ma come un momento di trasformazione da cui è scaturita una fermata della metropolitana che adesso mi fa arrivare da casa mia a San Siro in quindici minuti con una metropolitana automatizzata tra le più avanzate al mondo. O no? E non dimentichiamo che quando si parla di Milano oggi non possiamo più pensare soltanto alla città storica e determinata nei suoi confini amministrativi: oggi si deve pensare in termini di città metropolitana, un agglomerato che include non soltanto l’hinterland più immediato ma che si espande per decine di chilometri: Milano ne è il centro e se l’emozione mi ammutolì quando sbarcai per la prima volta sotto la campata della Stazione Centrale che avevo visto nell’incipit del viscontiano “Rocco e i suoi fratelli” spero che la stessa emozione colpisca il contemporaneo fruitore davanti al nuovo skyline nato negli ultimi anni. Poi discutiamo anche di speculazione edilizia, di profitto, di diverse valutazioni critiche urbanistico-architettoniche: la constatazione del cambiamento non vuol dire adesione acritica né critica pregiudiziale. È compito del fotografo cercare di cogliere il passaggio tra il passato e il futuro.

Chiedo scusa a Michele e ai lettori per la lunghezza poco educata di questo intervento ma l’argomento mi sta a cuore perché come fotografo e studioso ci lavoro da più di trent’anni.

Cari saluti a tutti, Pio Tarantini.

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