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Franzini14Non sono molti, in apparenza, i testi dedicati all’estetica della fotografia. Alla fin fine, si finisce sempre per ricordare Baudelaire e, su questa base, Benjamin. Cui si aggiunge l’indimenticabile Barthes.

Ma poi si scopre che la questione non è semplice come appare a uno sguardo superficiale: dal 1838 a oggi, considerando il 1838 la data convenzionale che vede la nascita della fotografia, le teorizzazioni sono state numerose, e certo molto contraddittorie. Scopriamo, per esempio, che filosofi come Santayana nel 1905 o grandi poeti come Valéry nel 1939, ne hanno elogiato il valore estetico e conoscitivo, quasi contraltare del ben noto sospetto di Baudelaire, origine di quella ambivalenza che si riscontrerà in Benjamin. Né va dimenticato che Marx, nella sua “Ideologia tedesca” parla proprio della “camera oscura” per descrivere i guasti dell’ideologia. Parole importanti, perché vengono riprese da Bertolt Brecht, per il quale la fotografia è comunque “ideologica”: mostra solo l’apparenza, ma non la realtà profonda delle cose.

Geoffrey Batchen, in un bel libro del 1999, cogliendo questa messe di studi, noti e meno noti, critici o esaltanti, ha dunque ben sintetizzato due correnti tra i teorici della fotografia: quella di coloro che cercano di stabilire la natura in sé della riproduzione fotografica (tendenza ontologica) e quella di coloro che ne studiano gli effetti culturali o sociali. Questa “coppia” domina senza dubbio l’estetica della fotografia.

Tra i primi spicca, sin dal 1945, e con un saggio che ha proprio come titolo “Ontologia dell’immagine fotografica”, André Bazin, per il quale l’originalità della fotografia rispetto alla pittura si pone proprio nella sua “oggettività essenziale”. Per la prima volta, aggiunge, “un’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza intervento creativo dell’uomo secondo un determinismo rigoroso”. Su questa linea, pur con molteplici sfumature, molti seguiranno Bazin, alla ricerca di una “essenza” della fotografia, il suo “specifico”. Forse, tra essi, in una sua prima fase, lo stesso Roland Barthes, per il quale la fotografia trasmette “la scena stessa, il reale preso alla lettera”, sino a definirlo, con la sua consueta criptica genialità, come “un messaggio senza codice”. Ma, proprio in questa definizione, ecco che appare un punto importante: se all’avvio delle sue riflessioni per Barthes la fotografia è un “analogon” nel senso di Sartre – ponendosi dunque nel quadro di una filosofia dell’immagine – nella “Camera chiara” sviluppa la sua complessità come intreccio simbolico tra fotografo, simulacro e occhio dello spettatore. Un intreccio per cui non sa trovare la parola che lo descriva, scegliendo poi il latino “studium”, ovvero l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, ma connesso a un’altra parola latina “punctum”, cioè qualcosa che guardando la fotografia ferisce, fatalità che punge.

È evidente che questa definizione di Barthes segna un punto di discrimine essenziale. Da una posizione ontologica, che è attenta al senso intrinseco del fotografico, si passa a chi tale fotografia guarda, cioè al suo senso sociale e culturale, ciò che Dubois ha chiamato “effetti di significato più o meno codificati”. Effetti che vengono studiati da Jean Marie Schaeffer, che vede per la fotografia effetti di “indice” e di “icona”.

La fotografia diviene così oggetto di “cultura” o, meglio, esempio del valore simbolico dell’immagine nella nostra modernità e ai suoi albori. Seguendo la geniale interpretazione di Ceserani, ecco allora che una lettura estetica della fotografia può assumere vari “orientamenti”. In primo luogo un orientamento psicologico ed epistemologico. Che ha le sue radici in una mentalità positivista, che analizza le analogie tra il cervello umano e l’apparecchio fotografico: analogie che stanno ora tornando di attualità in relazione alla cosiddetta “neuroestetica”. Prospettiva che, tuttavia, per reazione, coglie anche gli spessori spirituali della fotografia, affermando appunto che non è “riducibile” alla fisiologia dell’occhio. Ne è esempio, paradossalmente, Freud, che per spiegare l’inconscio si riferisce, e non occasionalmente, all’immagine fotografica.

A questo atteggiamento, come dimostra Damisch, se ne affianca uno “fenomenologico”, che rende la fotografia un sistema di costruzione dello spazio, un modo di “abitare il mondo”. Così operando si affianca a una dimensione antropologica, cioè a un modo per rimettere in gioco il senso generale dell’immagine e del suo valore magico, rituale, sacrale. Questo orientamento, che peraltro si coglie anche in Benjamin, è stato ripreso sul piano sociologico ed è forse, se si guarda al successo pubblico, il più fortunato, dal momento che, al suo interno, si muovono autori come Freund, Bourdieu o Sontag. Quest’ultima, peraltro, osserva – con una mossa teorica di grande rilevanza – che, insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie ampliano e alterano i nostri criteri visivi o, meglio, l’assiologia della nostra capacità di vedere. Ancora una volta, dunque, la fotografia diventa un mezzo per discutere sul senso conoscitivo dell’immagine. Come scrive appunto Bourdieu, la fotografia fissa un aspetto della realtà che è sempre il risultato di una selezione arbitraria e quindi di una trascrizione: è quindi un’operazione di “scelta” oggettuale. In ciò prosegue quella grande stagione della visibilità che, nel mondo moderno, si è affermata con la prospettiva. La fotografia, si potrebbe dire, è una forma simbolica della modernità e dei suoi meccanismi di visione. Se guardiamo al grande libro di Panofsky sulla prospettiva come forma simbolica potremo infatti vedere che, nel suo sforzo teleologico, in cui sempre più il senso della pittura sembra espandersi con l’ampliarsi del valore della scienza e della tecnica, la fotografia è il punto estremo della figuratività occidentale, occupando il ruolo gnoseologico un tempo riservato alla pittura.

La prima conclusione è che dunque la fotografia, il suo senso estetico e conoscitivo, va vista nel quadro di un complesso atteggiamento culturale, venendo implicata, come dimostra la Kraus, in tutte le polemiche culturali che attraversano il nostro tempo e la sua varietà ideologica. Diviene una piccola narrazione postmoderna, in virtù della sua stessa duplicità. Come infatti è stato scritto da Kelsey e Stimson, il significato della fotografia è derivato principalmente dalla sua doppia indicità, cioè dal fatto peculiare che essa punta sia verso il mondo sia verso l’interno, cioè verso il fotografo. Si passa sempre più dall’ontologia alla psicologia e quindi nella nebulosa postmoderna, dove la fotografia come tale perde progressivamente la propria identità, sempre più collegata all’universo dell’inconscio e dei suoi desideri.

Si apre così l’interpretazione che si vuole presentare: non esiste un’unitaria “estetica della fotografia”, ma la fotografia, come dimostra Baudelaire, è il modo “moderno” per riflettere sullo statuto dell’immagine e, in particolare, sulla sua genesi moderna e contemporanea. Senza che, tuttavia, la fotografia perda il suo legame storico con le arti figurative e con quel loro senso teorico che Lessing teorizzò sin dal 1766. Ma se per Lessing, in virtù dei vincoli propri all’immagine, le arti figurative stavano perdendo il loro senso a favore delle arti della parola, che avevano più possibilità espressive, la fotografia è stata il modo per restituire vigore alla figuratività e al senso dell’immagine, per rovesciare di nuovo il senso del vedere, mischiando visibile e invisibile.

Si può dunque dire, ripercorrendo questo percorso di senso, e di conoscenza, che la fotografia ha davvero un carattere “perturbante”, proprio nel senso indicato da Freud: spiazza le nostre certezze e apre la possibilità di mettere in modo credo di fronte alla realtà, senza maschere. Come ha scritto in modo folgorante la Sontag, ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia, aggiunge, “significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità dell’altra persona”. Le fotografie attestano “l’inesorabile azione dissolvente del tempo”. La fotografia ci ricorda come è nata l’immagine, cioè come “imago”, maschera funebre, certo, ma anche luogo originario su cui si fonda la nostra storia.

  • Prof. Elio Franzini, ordinario di Filosofia Estetica presso l’Università Statale di Milano

Dal convegno “Rapporti tra estetica e fotografia” tenutosi a Milano il 9 maggio 2015

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