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Parlare del reportage non è per niente semplice poiché rappresenta un segmento ontologico della fotografia molto complesso, a sé stante, di grande impegno sociale e spesso confuso con altri generi, quali la fotografia di viaggio o più banalmente con delle singole fotografie di Street.

Mi sembra pertanto opportuno dare una definizione ben precisa di reportage, a tale proposito mi rifaccio a due testi: la Treccani e il libro di Alfredo De Paz “Fotografia e società”.

TRECCANI

“Il termine francese reportage indica, nell’accezione comune, un genere fotografico che fornisce informazioni e si occupa di indagare e documentare vari aspetti della realtà, sostituendo alla parola scritta la sola forza comunicativa delle immagini, in genere collegate secondo un’organizzazione d’idee espressive di una visione personale dell’autore sull’argomento trattato, sia esso un fatto di cronaca o una ricerca a più ampio respiro su un tema qualunque.”

De Paz

“Il reportage vero e proprio si riferisce a quelle immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul luogo stesso di un determinato evento… La fotografia di reportage può essere identificata con il cosiddetto fotogiornalismo, anche se forse più corretto affermare che mentre nelle fotografie di reportage il fotografo si limita a riprendere determinati frammenti di realtà aventi precisi significati (soggettivi, sociali, politici, ed etnologici…), Nel fotogiornalismo emerge maggiormente il desiderio di raccontare, attraverso le immagini, una storia avente valenze semantiche prevalentemente storiche, sociali e politiche.”.

Dall’analisi di queste due definizioni siamo in grado di riferirci al reportage come a una sorta di linguaggio fotografico ben caratterizzato la cui struttura è legata alla presenza d’immagini concatenate l’una all’altra, come le frasi di un discorso. Esso si esprime attraverso regole sia lessicali, sia grammaticali e si differenzia da ogni altro genere fotografico dovendo prendere atto che non è possibile racchiuderlo o coercizzarlo in un’unica immagine fotografica autoreferenziale.

Il termine reportage ha ben radicato anche il concetto d’identità e unità di luogo fisico della ripresa.

 Semiotica del Reportage

Innanzitutto vorrei porre in evidenza che, parlare di semiotica dell’immagine è fondamentale poiché questa branca della filosofia, nata con l’intento di porre le basi di un’analisi del linguaggio, in realtà è possibile applicata a tutti i mezzi di comunicazione e grazie a essa si studiano i fondamenti delle interrelazioni tra struttura del linguaggio, pensiero logico e significato.

Dato atto che la fotografia è uno dei mezzi di comunicazione tra i più importanti e diffusi e, in particolare, con malcelato orgoglio, io penso che il reportage ne rappresenti una delle espressioni più alte, occorre inevitabilmente prendere confidenza con questo ramo della filosofia, per introiettare i molteplici aspetti della comunicazione nell’ambito sia dell’immagine in generale, sia ancora di più nello specifico della fotografia di reportage.

Per cercare di essere più semplice possibile, farò riferimento alla scuola semiologica di Pierce di cui mi limiterò a trattare solo due componenti fondamentali di questa teoria: il segno (o indice) e l’icona per includere successivamente la visione semantica di Floch, che superando Pierce, ci apre nuovi orizzonti interpretativi.

Cito dalle parole di Pierce una definizione di segno o indice:

“Deve esserci una relazione duale diretta del segno con il suo oggetto indipendentemente dalla mente che usa il segno. Il segno significa il suo oggetto solamente in virtù del suo essere realmente connesso a esso.”

In buona sostanza l’autore ci dice che il segno o l’indice corrisponde né più né meno che alla realtà oggettiva, cioè, per rimanere in campo fotografico, a quello che è ripreso dalla nostra camera in modo asettico e senza interventi di alcun genere.

Sempre dello stesso autore di riporto ora la citazione riguardante la sua definizione d’icona:

“Un’icona è un rappresentamen di ciò che rappresenta, e per la mente che lo interpreta come tale, in virtù del suo essere un’immagine immediata, cioè in virtù di caratteri che appartengono a essa in se stessa giacché oggetto sensibile, e che possiederebbe esattamente uguali anche se non ci fosse alcun oggetto in natura a cui somigliasse e non fosse mai stata interpretata come segno.”

In parole povere questa definizione esprimere il concetto che un’icona è una rappresentazione, una somiglianza di un indice, cioè richiama alla mente semplicemente qualcosa di reale pur non essendo di per sé la reale rappresentazione oggettiva. S’introduce il concetto di “somiglianza” quale rappresentazione di qualcos’altro.

Floch, nel suo libro “Forme dell’impronta” ci apre un mondo nuovo di intendere l’analisi semiologica dell’immagine fotografica.

Il suo libro si pone in contrapposizione rispetto alla proliferazione di saggi dei primi anni 80 sulla fotografia contrastando derive ontologizzanti delle teorie semiotiche non solo di stampo peirciano ma anche barthesiano.

Floch si pone contro “l’accanimento tassonomico” e parla di “feroci dibattiti sulla natura del segno fotografico” che mirano ad avere l’ultima parola sulla fotografia tout court come fu ad esempio in Dubois.

Floch nota nell’introduzione che i testi finora disponibili sulla fotografia la trattano o come linguaggio a sé, o come mezzo o come segno, spesso e volentieri non distinguendo fra queste tre concezioni. Se la fotografia fosse un linguaggio a sé (di cui evidentemente l’alfabeto sarebbe costituito dagli oggetti del mondo) non si potrebbe metterla in relazione né ipotizzare traduzioni con le altre immagini della tradizione pittorica né cinematografica, né con quella letteraria, etc. Se la considerassimo solo come un mezzo, ovvero come un medium a sé, incorreremmo ancora nell’intraducibilità e nell’onto-logizzazione della genesi, e se la considerassimo un segno ricadremmo nell’idea della fotografia come sostituto del reale limitandoci a inventariare gli oggetti raffigurati (icona), o come indice o come simbolo e non renderemmo conto delle trasformazioni plastiche e valoriali all’interno del testo capaci di costruire un racconto – come dimostra Floch nell’analisi del Nudo n. 53 di Brandt.

Floch al contrario si propone:

“Una ricerca su una tipologia di discorsi non-verbali, ma anche verbali, che integrerebbe la “storia interiore delle forme” della fotografia, e, più generalmente, dell’immagine, a quella di tutti i linguaggi, di tutte le semiotiche. Un simile progetto di integrazione è d’altronde tipico della semiotica strutturale, e conferma una volta di più l’antinomia tra quest’ultima e la semiologia dei segni e la loro rispettiva specificità.

…Secondo noi, il miglior servizio che si possa rendere oggi alla fotografia è di integrarla al mondo delle immagini in generale, e di insistere sul fatto che essa è attraversata da numerose estetiche o forme semiotiche che si estendono anche alla pittura, al disegno o al cinema.”

Questa integrazione egli la esprime molto bene nel confronto tra la fotografia di Brandt e i dipinti di Matisse e Cranach

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dove traspare evidente come in Brandt e Matisse la figura umana perda i suoi connotati indicali e divenga una mera impronta idetica che pone l’accento sul componente plastico dell’immagine.

“Il procedimento fotografico –sostiene Floch- non implica alcuna particolare forma plastica [che si possa intendere come specifica della fotografia]”

pertanto i dipinti di Matisse e di Cranach, come il Nudo di Brandt, si basano su un’estetica del ritaglio, sull’esaltazione del contorno, sulle rigidità e sinuosità del barocco di Cranach.

A questo punto emerge chiaramente che la fotografia la possiamo contenere nell’analisi di due aspetti semiotici:

1) foto in quanto documento per la testimonianza storica o sociologica

2) foto in quanto opera d’arte.

Quindi la foto va considerata sia sul piano figurativo: documento, prova, testimonianza, che plastico: bellezza, conciliazione mitica.

Tuttavia il reportage non può racchiudere la sua semiologia in un’analisi delle immagini come autoreferenziali, ma deve tenere conto che il suo significato più profondo comporta l’analisi semiologica di più fotografie. Esse sono legate le une alle altre, come le parole in un libro e quindi assurgono a sintagmi.

A questo punto dovremmo parlare di rapporti sintagmatici dei referenti presentati nelle fotografie di reportage.

Essi trovano la loro espressione unicamente sul piano figurativo, così da consentire al fotografo di conferire un senso compiuto della sua visione della problematica sociale che sta analizzando.

È qui che il reportage trova la sua specificità semantica, nella divisione netta tra una fotografia utilizzata come figurazione esclusiva del reale, ovvero dove ha come componente fondamentale la sua indicalità tanto cara a Dubois: il documento per eccellenza, in contrapposizione con il suo contenuto plastico, o se vogliamo, estetico, che passerebbe in secondo piano.

Così, mentre nel primo caso le immagini vanno interpretate nel loro insieme e analizzate in funzione dei legami referenziali che le uniscono, nel secondo caso, cioè leggendole secondo l’aspetto puramente estetico, possono ritrovare una loro autoreferenzialità.

L’analisi dell’utilizzo plastico va applicato della singola immagine e, ritornando alla visione pierciana, possiamo anche verificare come indice e icona a volte vengono a confondersi, a unirsi, cioè un’immagine può superare l’aspetto indicale, incamerare una vita propria e assumere l’efficacia di una “somiglianza” o di “assimilazione” di molti concetti in un’unica immagine.

In questo caso la fotografia diviene “Icona” e assume una vita propria, anche estrapolata dal reportage.

Come ad esempio lo sono diventate molte fotografie di guerra, dal miliziano di Capa,

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 alla bimba ustionata ripresa da Ut durante il conflitto del Vietnam,

Diapositiva09 fino alla bambina afgana ripresa da McCurry.

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