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THANATOS

L’enigma della morte è risolto da Esiodo in modo solo apparentemente semplicistico .La Notte, metafora evidente dell’oscurità e dell’atavico timore che questa ingenera nell’essere umano, procrea per partenogenesi il Sogno (Ypnos), la stirpe dei Sognatori (Óneiroi), il Destino avverso (Móros), la Morte violenta dei guerrieri (Ker), e la Morte (Thánatos). Figure in cui mitologia e fisiologia si fondono nel tentativo strappare quel velo di buio che non consente all’uomo di discernere, nell’immediato, il visibile dall’invisibile. E proprio la Morte si trasforma in un alter ego, una sorta di specchio antropico in cui l’umano si contempla, prende coscienza di qualcosa che è bene altro rispetto al visibile.

L’enigma della morte è anche una delle ragioni di maggior successo dell’immagine e di quella fotografica in particolare. Avvoltoio che si pasce dell’umano terrore della fine, la fotografia si oppone alla dissoluzione del corpo fisico. Cristallizzando in un dato momento l’aspetto di un soggetto, ne perpetua la forma anche dopo che questi ha cessato di esistere. È l’illusione del superamento della fine che si concretizza nelle immagini apposte alle tombe o in una semplice foto ricordo. La fotografia occulta, consola la mente e l’occhio, negando l’orrida fisica realtà della decomposizione, preservando quei tratti che il tempo non rispetta.

L’immagine ha un potere magico, come sostiene Régis Debray, giocando sull’anagramma delle parole francesi Image (immagine) e Magie (magia)[1]. Proprio l’immagine però può portarci in territori che deliberatamente tendiamo a ignorare per non affrontare l’orrore che nell’essere umano medio comporta l’entrare in contatto con le marche delle Morte.

La fotografia ci può portare in mondi preclusi ai più, come quello di una sala settoria e dei suoi riti. Funzionali, certo, ma anche interpretabili in chiave metaforica. L’operare scandito dalla proceduta autoptica e l’espianto degli organi, sembrano ripercorrere le fasi della risoluzione dello stato fisico di un corpo. Spogliato dai suoi contenuti tecnici e legali, ciò che vediamo è una sorta di rito apotropaico che ci apre a realtà deliberatamente ignorate e si celebra nelle immagini. Perché nell’immagine c’è un potere magico. «Non c’è che un dogma nella magia ed è il seguente: il visibile è la manifestazione dell’invisibile» ebbe a dire l’esoterica francese Alphonse Louis Constant, meglio noto come Éliphas Lévi.

Le marche sincroniche offerte dalla declinazione del gradiente cromatico riportano al mito esiodeo. La Notte, artificialmente evocata dalla massiccia presenza del nero, è la madre della Morte e con essa dell’ineluttabile destino degli esseri umani.

Il rito si conclude con la ricomposizione del cadavere e il lavaggio purificatore cui non è difficile attribuire, al di là delle ragioni pratiche, una lettura in chiave metaforica. L’acqua scorre per eliminare le tracce di ciò che fu un corpo e al tempo stesso allontana quel visibile che apre le porte della coscienza sulla sorti della nostra effimera esistenza. Con l’acqua che scorre via allontaniamo lo sguardo e, con esso, il terrore della fine che ci pervade, dimentichi della saggezza epicurea.

Sandro Iovine

[1] Régis Debray, Vita e morte dell’immagine, Editrice Il Castoro, MIlano 1999; pag. 31..

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