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Nell’ambito del FESTIVAL DELLA FOTOGRAFIA ETICA di Lodi, si è tenuto il convegno dal titolo:

ETICA E FOTOGIORNALISMO: UN RAPPORTO COMPLESSO

Qui vi pubblico il testo relativo al secondo intervento di Pietro Collini.

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La verità come veicolo della menzogna

  • Le falsità più pericolose sono le verità distorte moderatamente.
    Georg Christoph Lichtenberg

  • Noi vediamo, come si dice, secondo l’educazione che abbiamo ricevuto.
    Nel mondo vediamo solo ciò che abbiamo imparato a credere che il mondo
    contenga. Siamo stati condizionati ad “aspettarci” di vedere. E, in effetti, tale
    consenso sulla funzione degli oggetti ha una validità sociale.
    Come fotografi però, dobbiamo imparare a vedere senza preconcetti.
    Aaron Siskind

Il fotogiornalismo rappresenta in genere forse più alto e impegnativo in ambito fotografico, per le sue valenze documentali, sociali e storiche.

Tuttavia queste sue caratteristiche, soprattutto in considerazione della loro forza nel condizionare la coscienza collettiva, l’hanno reso immediatamente succube a interferenze esterne atte a controllare il messaggio veicolato.

IL PECCATO ORIGINALE: L’EFFETTO FENTON

La forza della fotografia di reportage è così rilevante, che questo genere fotografico quando vide la luce con il suo primo esponente Roger Fenton, già si macchiò di un peccato originale caratterizzato da un lato, da interferenze da parte del committente sul fotografo al fine di addomesticare il messaggio finale, dall’altro con l’utilizzo da parte del fotografo stesso d’espedienti per modificare la realtà fotografata attraverso trucchi di post-produzione, per meglio avvalorare il suo scatto.

Fenton, infatti, aveva avuto da parte della Royal Geographical Society l’incarico di fotografare sul campo di battaglia i soldati inglesi durante la guerra di Crimea, intorno al 1855. La RGS gli fornì un carro perfettamente attrezzato come camera oscura dove preparare, sviluppare e stampare le lastre fotografiche, oltre a beneficiarlo di un certo stipendio.

Tuttavia gli fu chiesto esplicitamente di evitare di riprendere scene crude di soldati morti o feriti, al fine di non gettare preoccupazione e panico tra i parenti rimasti in Inghilterra.

Ecco che immediatamente emerse prorompente la forza evocativa del fotogiornalismo nell’influenzare lo stato d’animo delle masse popolari, capacità questa subito ben compresa dal committente il quale impose a Fenton di riprendere solo scene particolarmente edulcorate e prive di quel pathos violento proprio di un conflitto bellico.

Come, infatti, potete osservare nelle fotografie seguenti:

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L’autore, ligio alle direttive ricevute, eseguì delle riprese, perlopiù di paesaggi, talora con soldati e cannoni fermi e allineati come se fossero in una banale parata militare, oppure scene di vita quotidiana riprese presso le tende dei campi militari, che però assomigliano molto più a campeggi per boyscout che a postazioni di comando militare.

Lo stesso Fenton fu anche il primo a modificare volontariamente una sua fotografia per conferirle un significato diverso da quello che era nella sua potenzialità indicale. Ecco la foto in questione:

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Naturalmente per falsificare quest’immagine egli non utilizzò alcun software per foto ritocco, per ovvi motivi, bensì si limitò a fotografare di nuovo la stessa inquadratura dopo aver fatto spostare alcune palle di cannone in mezzo alla strada carraia per mostrare l’intensità della battaglia.

Dal punto di vista concettuale questo intervento non è assolutamente diverso da qualunque intervento in postproduzione che oggi il fotografo può fare comodamente seduto davanti al suo computer.

Come abbiamo potuto osservare, la nascita del fotogiornalismo ci porta subito in primo piano due grosse problematiche che ancora oggi intervengono quotidianamente nelle fotografie di reportage e che ancora oggi rappresentano il fulcro nei dibattiti sul fotogiornalismo.

Il fotogiornalista, secondo me, dovrebbe attenersi a un motto molto semplice:

“Vedere, registrare, mostrare”.

In parole semplici il fotogiornalista dovrebbe produrre delle immagini icastiche.

Sostenendo questa posizione, mi rendo comunque perfettamente conto che produrre un’immagine icastica in ambito della fotografia di reportage sia assolutamente impossibile. Innanzitutto come diceva Eugene Smith un buon fotoreporter deve essere onesto, ma non può essere obiettivo.

Questo è ovvio dato che ogni persona detiene un suo retroterra culturale ed ha anche una visione sociale e politica degli avvenimenti personale, pertanto è ovvio che nel momento in cui egli avvicina l’occhio al mirino opera delle scelte precise di campo che si traducono in immagini pervase da una certa faziosità.

Tuttavia il fotogiornalista nella sua onestà intellettuale, dovrebbe anche riportare gli accadimenti di cui è testimone nel modo più obiettivo possibile. Vediamo ora un esempio di come un’ipotetica scena di guerra possa essere interpretata fotograficamente inquadrando in modo diverso gli attori presenti:

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Questo è un esempio lapalissiano che denuncia come si possa manipolare in modo molto semplice l’informazione e presentare al pubblico la stessa scena con significati molto diversi.

Nella realtà storica questo tipo di manipolazione è stato assai frequente e qui non riporto esempi perché sono certo che tutti ne avrete immediatamente richiamati diversi alla vostra memoria.

Con la guerra del Vietnam si chiude per il fotogiornalismo la prima fase della sua vita.

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La crisi delle testate giornalistiche, l’avvento della televisione, la disaffezione della gente per l’immagine statica, che cominciava a essere considerata anche fonte di menzogna mediatica, accanto alla novità che molte fotografie di famosissimi fotoreporter cominciassero a fare bella mostra di sé nei musei e che la nascita di una editoria del libro fotografico, traslando le immagini dalle riviste dotate di una vasta platea di pubblico, al libro, dedicato all’amatore raffinato, ha comportato un radicale mutamento nel modo di fotografare e di produrre reportage, portando, in modo assolutamente spontaneo, alla nascita di un nuovo fotogiornalismo.

Capostipite di questo nuovo modo di fare fotogiornalismo fu Susan Meiselas che nel 1981 pubblicò un libro intitolato Nicaragua, nel quale, attraverso le sue immagini, raccontò la rivoluzione sandinista.

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La novità va ricercata nell’utilizzo da parte dell’autrice della pellicola Kodachrome e quindi nell’aver prodotto per la prima volta un intero reportage di guerra a colori, ma soprattutto con colori squillanti e sopra saturi propri di quel tipo di pellicola, tanto da indurre i critici di allora a sostenere che le sue foto erano come “arte”.

Da questo momento il fotogiornalismo uscì dalle pagine delle riviste per entrare, come “arte”, nei musei e nei libri.

L’avvento del nuovo fotogiornalismo comportò anche un diverso atteggiamento di coloro che potremmo considerare i due capisaldi mondiali di questo genere fotografico: la rivista Life e l’agenzia Magnum.

Life cercò di portare avanti un modo classico di intendere fotogiornalismo privilegiando la pubblicazione di immagini che potessero raccontare realmente delle storie, mentre Magnum accettò che il fotogiornalismo potesse avere anche una sua valenza formale e che arte e politica in fotografia potessero coesistere.

Storicamente tutti sappiamo come è andata a finire.

Oggi il fotogiornalismo con la sua smania di produrre continuamente arte e col fatto che la produzione di questi fotografi sia più diretta verso il libro e il museo ha comportato che ogni fotoreporter debba accollarsi la risoluzione di due problemi precisi: trovare un tema da fotografare che ancora nessuno abbia affrontato in modo esaustivo e trovare un linguaggio visivo che altri non abbiano ancora utilizzato e che comunque sia il più lontano possibile dallo stile documentario tradizionale.

Questo tipo di pensiero, affrancato da molti critici che, nel segreto delle giurie dei concorsi, hanno premiato quei fotoreporter che più si sono lanciati in questa nuova fotografia documentaristica, ha portato alla produzione di immagini dalle quali traspare l’ansia dell’autore di proporre fotografie artistiche, se non icone, sempre più lontane dalla realtà indicale.

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Tante volte, come vedremo negli esempi successivi, queste immagini risentono di pesanti interventi in postproduzione, saturando i colori e modificando l’assetto cromatico dell’immagine verso tonalità piuttosto fredde, ma anche proponendo tagli di inquadratura atti ad amplificare nel fruitore sentimenti pietistici che, per riprendere Susan Sontag, potremmo parlare di estetizzazione del dolore.

La fotografia di George Mérillon, del 1990, venne scattata in Kosovo ed è la ripresa dei familiari attorno a una delle vittime, Nasimi Elshani, della repressione di Slobodan Miloševiƈ, a Drenica, contro i ribelli mussulmani kossovari nei confronti del regime di occupazione cattolico serbo. 

 

 

 

 

 

 

 

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Michel Guerrin è il primo che avvicina l’ immagine della donna in lacrime a una Pietà  e le dà il titolo di “Madonna”, aprendo la strada a una lunga serie di malintesi interpretativi. L’autorità dello specialista di fotografia di Le Monde permette di cancellare quello che una simile qualificazione ha di incongruo nel contesto di una guerra civile in territorio mussulmano. Questa associazione non  può essere frutto né della donna fotografata, che infatti presenterà querela per diffamazione per quella definizione, né del fotografo algerino, che non riesce a spiegarsi a fondo l’impatto di quel “documento”. Il riferimento all’iconografia cristiana non si può spiegare in altro modo che come un effetto di lettura, una sur-interpretazione da parte degli editori occidentali, che trova la sua motivazione nel riflesso mediatico usuale di ricorrere a una immagine simbolica per illustrare una tragedia. 

 

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Come è dato osservare in queste immagini, l’accostamento evidente ad una metrica compositiva propria dei quadri classici rinascimentali, l’utilizzo di una luce atta a sottolineare la drammaticità della situazione e una semiotica dei colori intenzionalmente manipolata per stimolare ulteriormente la pietas dell’osservatore, mi inducono a ritenere che in queste fotografie si utilizzino degli stereotipi già noti e delle ridondanze stilistiche tali da poter asserire che queste immagini siano fruibili solo entro la facile “massculture” del kitsch e non certo dell’arte.

E dove, comunque, si osserva una completa destrutturazione del messaggio documentale a tutto vantaggio di una fantasiosa e fuorviante lettura della realtà.

Certamente non ho la pretesa che questo mio duro giudizio sia verità rivelata, tutt’altro, ma spero che possa essere stimolo a riflessioni e prese di posizione su questo tema così complesso e delicato, che coinvolge la sostanza e la credibilità di questa meravigliosa professione e a porsi la domanda se sia possibile coniugare indicalità e arte senza che l’una comporti la perdita dell’altra.

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