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LA QUALITÀ ARTISTICA di Pio Tarantini  [Il testo è pubblicato nel suo volume dell’ autore: “Fotografia araba fenice. Note sparse tra fotografia, cultura e il mestiere di vivere” Ed. Quinlan 2014]

Cinquant’anni dopo il saggio Apocalittici e integrati e cento anni dopo Duchamp non è semplice cercare di definire i parametri della qualità artistica.

Spesso su queste pagine ho avuto modo di esprimere le mie perplessità rispetto ad alcune manifestazioni artistiche che paiono ripercorrere – a volte stancamente, a volte in modo più creativo – le mille strade aperte dalle Avanguardie storiche e in particolare dall’idea duchampiana di ready made e di sradicamento totale delle modalità artistiche tradizionali.
Si potrebbe affermare, con buona approssimazione, che l’arte attuale, è diventata sostanzialmente non più ricerca di forme espressive che testimonino la capacità dell’autore di comunicare trasformando la materia grezza in opera ma la sua capacità di comunicare un messaggio attuata attraverso un procedimento esclusivamente concettuale di inventare nuovi scenari attraverso una diversa contestualizzazione di oggetti esistenti; la pratica artistica, in definitiva, inventata da Duchamp.

Apocalittici e integrati

Sono trascorsi cinquanta anni da quando Umberto Eco, poco più che trentenne, pubblicava nel 1964 Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, uno dei suoi testi più famosi di semiologia e di analisi dei linguaggi. Nonostante l’età il testo conserva freschezza di impianto e una non comune capacità divulgativa di mettere a fuoco e analizzare questioni fondamentali per la decodificazione della comunicazione nell’età contemporanea.
Se si pensa alla ricchissima bibliografia che, a partire dai primi anni sessanta, ha caratterizzato in un costante crescendo la cultura sulla comunicazione; se si pensa alla crescita esponenziale che la stessa cultura sulla comunicazione ha avuto in campo didattico, soprattutto in Italia, con la nascita, la proliferazione e l’attuale sovrabbondanza di corsi di studi universitari dedicati, non si può non constatare come in questo mare magnum sono pochi in definitiva – come d’altronde sempre accade in tutte le discipline − i testi destinati a rimanere nel tempo.
Apocalittici e integrati è uno di questi.Eseguito questo doveroso omaggio, mi piace ricordare − in sintonia con quanto sostiene una marginale ma importante componente della critica d’arte contemporanea – come alcuni passaggi del testo di Eco relativi a considerazioni sui linguaggi dell’arte rivelino una sorprendente attualità.Provo brevemente a ricordarne alcuni momenti che ritengo importanti per il dibattito in corso nella critica d’arte sul senso del “fare arte oggi”.

Avanguardia e Kitsch

In questo ambito Eco centra alcuni punti del tutto condivisibili, in particolare nel capitolo La struttura del cattivo gusto: nel paragrafo Kitsch e cultura di massa l’autore, tra l’altro, riprende la fortunata formula sostenuta da Clement Greenberg in Avant-garde and Kitsch secondo la quale

“mentre l’avanguardia (intendendola in generale come l’arte nella sua funzione di scoperta e invenzione) imita l’atto dell’imitare, il Kitsch (inteso come cultura di massa) imita l’effetto dell’imitazione.”

E continua poco dopo:

“[…] l’avanguardia nel far arte pone in evidenza i procedimenti che portano all’opera, ed elegge questi ad oggetto del proprio discorso, il Kitsch pone in evidenza le reazioni che l’opera deve provocare, ed elegge a fine della propria operazione la reazione emotiva del fruitore”: al proposito, in nota, Eco ricorda che “è questa la tematica della morte dell’arte […]”.

Preso atto di questo aspetto dell’analisi di Greenberg però Eco ne sviluppa l’assunto rovesciandone le conseguenze, precisando che il processo della nascita del Kitsch

“non nasce come conseguenza dell’elevarsi della cultura d’élite su livelli sempre più impervi; il processo è assolutamente inverso”.

E qui l’autore dispiega un altro interessante momento di analisi, ricordando che l’arte incomincia ad elaborare un concetto di avanguardia quando, per i motivi storici e sociali più vari, si afferma, verso la metà dell’Ottocento, una cultura di massa che va dal romanzo popolare a una iconografia generale e personale non più delegata alla ristretta cerchia delle arti tradizionali ma che trova nella fotografia lo strumento moderno di imitazione del mondo, nel senso di riproduzione bidimensionale più o meno vicina alla realtà percepita visivamente.

A quel punto l’arte deve guardare altrove non solo a una rappresentazione realistica del mondo: nasce l’impressionismo e di seguito tutti i movimenti ismi che hanno caratterizzato i primi decenni del Novecento, alcuni dei quali noti appunto come le Avanguardie storiche.

Ecco allora che, per Eco, si sviluppa un complesso rapporto dialettico tra avanguardia e Kitsch

“poiché non solo l’avanguardia sorge come reazione alla diffusione del Kitsch, ma il Kitsch si rinnova e prospera proprio ponendo continuamente a frutto le scoperte dell’avanguardia”.

Intuizione geniale che spiega ancor oggi molti meccanismi dell’industria culturale e dell’arte, visti come

“una continua dialettica tra proposte innovatrici e adattamenti omologatori”.

Il flusso avanguardia-Kitsch-avanguardia-Kitsch… può essere forse oggi precisato, per quanto riguarda l’aspetto più strettamente inerente all’arte come un flusso avanguardia-arte-comunicazione-Kitsch…, là dove l’inserimento del termine comunicazione serve a evidenziare quanto questo aspetto stia prevalendo nella ricerca artistica attuale.
Quante performance, installazioni e manifestazioni le più varie oggi hanno lo scopo non solo di stupire rifiutando il linguaggio tradizionale – prerogativa questa molto praticata da Duchamp in poi: al proposito ricorrono esattamente cento anni da quando Duchamp presentò, investendolo dell’aura concessa all’opera d’arte, il suo primo ready made – ma soprattutto pongono in primo piano non l’aspetto formale dell’opera ma il suo messaggio.
L’antica dialettica forma-contenuto, o se vogliamo, più modernamente, significato-significante, si sviluppa in modo nuovo e se ancora nell’epica duchampiana resisteva un margine di contemplazione verso l’objet trouvé, nelle manifestazioni artistiche di oggi spesso prevale la trovata ad effetto: ed ecco che si ritorna al Kitsch in questo perpetuo mordersi la coda con l’avanguardia.

La qualità artistica, oggi

È stato necessario ricordare questi aspetti e queste tappe dell’arte contemporanea e della sua critica per aiutarmi a rispondere alla domanda iniziale sulla qualità artistica oggi, la cui risposta personale non può essere che per esclusione/deduzione: i dubbi che costellano il mio percorso di autore e osservatore delle vicende artistiche contemporanee mi spingono a essere diffidente verso certe modalità, più o meno spettacolari o minimaliste che siano, praticate da buona parte dell’arte attuale; sono quelle modalità sulle quali ho già avuto modo di intervenire in qualche mia precedente nota apparsa su queste stesse pagine (tra cui l’articolo Ambiguità e banalità del contemporaneo, pubblicato nel 2006 sulla rivista Around Photography e riproposto sul n° 6 del riContemporaneo.org).
Alla luce di queste mie diffidenze verso un’arte divenuta comunicazione spettacolare − spesso voluta e imposta da un mercato che deve autoalimentarsi per evitare il crollo di tanti miti sul limite della bolla speculativa – è evidente che per me la qualità dell’arte consiste nella ricerca faticosa, lenta, problematica di forme e modi nuovi di interpretazione del mondo, guardando non solo al mercato e ai desiderata di galleristi, critici e curatori spesso interessati solo alla creazione di nuovi fenomeni da lanciare sul mercato, ma guardando nel profondo della propria anima, per cercare quegli stimoli, quelle motivazioni profonde da cui può veramente scaturire il corto circuito tra il pensiero, il talento personale e la necessità/capacità di contribuire alla decodificazione del mondo e della nostra presenza su di esso.
Un’arte lenta e faticosa, che non vuol dire necessariamente modesta o contenuta o poco spettacolare o del tutto disinteressata all’aspetto economico, ma che − rifiutando il Kitsch, come ricordava Eco citando Greeberg, che imita l’effetto dell’imitazione – si sforzi davvero di trovare strade nuove e convincenti di interpretazione del mondo, non importa se realizzate con una installazione grandiosa come i Sette Palazzi Celesti di Kiefer all’Hangar Bicocca di Milano o con una piccola scultura-installazione di pochi centimetri realizzata con un legnetto e un po’ di fil di ferro da Fausto Melotti.
Se oggi è impensabile poter fare arte rintanato come un bohémien squattrinato in una soffitta di Parigi o andandosene a Tahiti, dovrebbe però essere doveroso fare arte ribaltando il pensiero dominante e sapendo che non siamo fatti della stessa materia dei soldi ma di quella dei sogni.

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