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totiTutto nacque con un regalo di Natale nel lontano 1965. Chissà come mai i miei genitori mi fecero trovare un kit del “Bravo fotografo” della gloriosa Ferrania.

Nella scatola trovai una macchina fotografica di plastica, tipo Holga, formato 127 (per chi non lo conoscesse, trattasi di un formato un po’ più piccolo del 6×6, precisamente un 4×4, oggi definitivamente scomparso), con due pellicole BN ortocromatiche [non sensibili alla luce rossa. Ndr], acidi in polvere per lo sviluppo e fissaggio che andavano bene sia per la carta, che per la pellicola, un pacco di carta da 25 fogli formato 10×10 cm, un apparecchio per la stampa a torchietto e un piccolo tank per sviluppare la pellicola, due vaschette di plastica leggera e, infine, una lampadina rossa.

Il primo rullino fu un disastro, lo fissai male e mi apparve di un colore crema, lattiginoso: in sostanza inservibile. Non disperai e consultai il padre Bianchi, sacerdote della mia scuola grande appassionato di fotografia, che immediatamente fece la diagnosi e illustrò la terapia.

Subito riprovai e grande fu la gioia di ritrovarmi tra le mani un vero negativo, finalmente stampabile. Per accelerarne l’essicazione e assaporare la possibilità di stamparlo subito lo asciugai con il phon di casa e quasi mi si fuse in mano, ma fortunatamente evitai danni definitivi.

Chiuso nel cesso di casa, luogo assai familiare a tantissimi fotoamatori della mia età, accesi la famigerata lampadina rossa, posi il negativo sul torchietto, foglio di carta e… luce per pochi secondi, come da istruzioni. L’emozione che provai nel vedere annerirsi la carta immersa nel liquido di sviluppo fu indescrivibile. Ancora oggi, ripensandoci, mi trovo a risentire un misto di ansia, paura, gioia, trepidazione e senso dell’ignoto.

L’avventura proseguì, comprai altre pellicole, pacchettini di carta e via a fotografare qualunque cosa, ma con parsimonia: allora il materiale fotografico non era a buon mercato…

Due anni dopo il buon padre Bianchi ebbe la brillante idea di farsi dare dei locali nello scantinato della scuola e impiantò il primo laboratorio fotografico, insieme con altri studenti liceali e mi propose di diventare socio del circolo per allora 500 lire l’anno: ero il più piccolo, ma da lì la passione entrò in me prepotentemente e non mi lasciò più.

Ricordo il bellissimo ingranditore Leitz Focomat, gli obiettivi da stampa Companon e Rodagon, l’odore acre degli acidi di sviluppo, il profumo pungente del bagno di arresto all’acido acetico, la puzza di candeggina dell’ipoclorito del fissaggio.

Pochi soldi e tanto amore, sintetizzerei così l’essenza di questa passione in quegli anni.

I pochi soldi funzionarono come un maestro rigoroso, mi costrinsero a pensare ogni scatto: diaframma (il tempo no, era fisso), inquadratura e maniacale attenzione allo sviluppo del negativo e successivamente, nella fase di stampa, dovevo evitare ogni spreco, considerando che la carta e le pellicole costavano care!

Tanto amore mi spinse a risparmiare su mance e paghette per riuscire ad acquistare il materiale e non smettere mai, nonostante i tanti insuccessi e i rimproveri del severissimo Bianchi: “Troppo grigia! – Sottoesposta! – Che cavolo d’inquadratura è questa?” E tante altre amenità, tra le quali ricordo con terrore la smaltatura: il grande incubo. Soltanto una volta su dieci veniva bene e ogni volta bisognava ripetere tutta la procedura dal lavaggio fino alla fine… (Lascio, con un pizzico di sadismo, alla curiosità del lettore andarsi a trovare cosa volesse dire “smaltatura”).

1971: l’anno della svolta. Tre i motivi di una vera rivoluzione: la grande gioia di ricevere in regalo la CANON Ftb, con un bel 50 mm f 1,8, il trittico dei volumi di Ansel Adams “The Camera, The Negative e The Print” in edizioni originali, che lessi e imparai quasi a memoria e la possibilità di stampare anche il colore, dato che il padre Bianchi era riuscito a dotare il laboratorio delle apparecchiature necessarie.

Stampare il colore non era per nulla semplice, almeno all’inizio, e vi voglio risparmiare i dettagli, ma vi basti dire che per giudicare se un provino fosse corretto occorreva, oltre a eseguire la procedura completa (sviluppo, lavaggio 10 minuti, sbianca, lavaggio 10 minuti, fissaggio, lavaggio 20 minuti e bagno indurente con formalina), asciugarlo perfettamente per poter avere l’idea esatta delle eventuali dominanti e quindi ripetere i provini fino alla correzione perfetta e poi eseguire la stampa finale. In parole povere in circa quattro/sei ore si riusciva ad ottenere una stampa accettabile.

Forse per i costi e il gran tempo necessario per una buona stampa, rimasi fedele al BN.

La fedeltà fu premiata da risultati via via sempre più positivi e di soddisfazione. Imparai a eseguire mascherature perfette, a maneggiare i prodotti chimici, preparandomi le varie soluzioni di sviluppo secondo i risultati che desideravo ottenere, ma soprattutto mi formai un vero occhio in BN, cioè a previsualizzare come avrebbe dovuto essere l’immagine finale, semplicemente guardando la scena “a crudo”: questo mi aiutò e tuttora mi consente di lavorare il BN in modo ottimale.

Ho desiderato trasmettervi le mie esperienze ed emozioni, vissute in prima persona. Forse la fotografia argentica non v’interessa, né la troverete avvincente, ma vi assicuro che da un punto di vista formativo è fondamentale.

Sono convinto che oggi nell’era della fotografia digitale, fermarsi a pensare come scattare una foto, meditare quale pellicola sia meglio, quale diaframma, quale tempo di esposizione, quale carta scegliere per la stampa, quale tonalità preferire, assaporare l’ansia di non poter vedere immediatamente il risultato, ma avere la forza di attendere e pensare sarebbe ancora propedeuticamente basilare.

Vi darebbe la consapevolezza di scattare la fotografia che realmente volete e non a caso, evitandovi di diventare dei comuni fotorroici.

A questo punto mi sento di concludere questa mia lunga digressione con una frase del mitico Scianna: “Un occhio per il mirino, l’altro per il cervello!”

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